James Hansen, lo scienziato ribelle

di Elisabeth Kolbert – fonte: The New Yorker, Stati Uniti (Circolo Pasolini Pavia)

Foto NYTimes"

E’ uno dei climatologi più importanti del mondo. Ha denunciato i rischi del riscaldamento globale nel 1981. Poi ha aspettato quasi trent’anni che i politici intervenissero. Alla fine ha deciso di impegnarsi in prima linea. Qualche mese fa James Hansen, il direttore del Goddard institute for space studies della Nasa, si è preso un giorno di ferie per partecipare a una manifestazione di protesta a Washington. Il bersaglio immediato della contestazione era la centrale elettrica del campidoglio americano, che fornisce acqua calda e fredda agli ufici del congresso, ma l’obiettivo più generale era contestare l’uso del carbone, la principale fonte di emissioni di gas serra del mondo. Il giorno della manifestazione nevicava. Hansen indossava un impermeabile e un cappello a tesa larga, ma si era dimenticato di portare i guanti. Sua sorella, che abita a Washington ed era andata con lui per tenerlo d’occhio, lo ha guardato e gli ha detto che sembrava Indiana Jones. Il corteo verso la centrale sarebbe partito dallo Spirit of justice park, sul Capitol Hill. Quando Hansen è arrivato, c’erano già migliaia di manifestanti. Molti avevano in testa un cilindro verde e in mano cartelli con scritte del tipo “Energia senza carbone” e “Il carbone pulito è come l’acqua asciutta”. Hansen è stato subito circondato dalle telecamere. “Lei è uno dei più importanti climatologi del mondo”, ha cominciato un giornalista. “Come concilia la sua presenza qui con il ruolo di scienziato?”. “Vorrei che le persone capissero qual è il rapporto tra scienza e politica”, ha risposto Hansen. “Qualcuno deve pur farlo”. Il giornalista non era soddisfatto: “Disobbedienza civile?”, ha detto con un tono di falsa incredulità. Hansen gli ha spiegato che uno dei motivi per cui manifestava era che non poteva chiedere ai giovani di schierarsi in prima linea “e nascondersi dietro di loro”. Ma il giornalista non aveva ancora ottenuto quello che voleva. “Abbiamo saputo che oggi vi aspettate tutti di essere arrestati, anzi ci sperate, persino. È vero?”. “No, non è vero”, ha risposto Hansen, “ma voglio attirare l’attenzione sul problema, e farò tutto quello che è necessario”. Hansen ha 68 anni, gli occhi verdi, pochi capelli castani e l’aria sperduta di chi non trova più il portafoglio (in effetti dimentica spesso dove mette le cose, compresa l’automobile). Trent’anni fa ha creato uno dei primi modelli climatici del mondo, il cosiddetto “modello zero”, e lo ha usato per prevedere quasi tutte le modificazioni del clima da allora a oggi. A volte viene chiamato “il padre del riscaldamento globale”, a volte il “nonno”. Basandosi sui suoi ultimi modelli e sulle osservazioni fatte da altri scienziati, Hansen è arrivato alla conclusione che il rischio del riscaldamento globale è molto più grave di quanto aveva immaginato. L’anidride carbonica non sta per raggiungere livelli pericolosi, li ha già raggiunti. Se non si interviene immediatamente, per esempio chiudendo tutte le centrali a carbone del mondo entro i prossimi vent’anni, il pianeta subirà delle modificazioni che la società non sarà in grado di sopportare. “Questo particolare problema è diventato un’emergenza assoluta”, afferma Hansen. Perciò ha cominciato a partecipare a manifestazioni come quella di Washington. In genere è difficile che gli scienziati che lavorano per il governo si lascino coinvolgere in iniziative di questo tipo. A settembre del 2008 Hansen è andato in Gran Bretagna per testimoniare a favore di alcuni attivisti della lotta contro il carbone che erano stati arrestati. Si erano arrampicati sulla ciminiera di una centrale elettrica per scrivere un messaggio al premier con la vernice spray (poi sono stati assolti). L’anno scorso Hansen ha dichiarato davanti a una commissione parlamentare che le aziende produttrici di carburanti fossili stavano volutamente incoraggiando la disinformazione sul riscaldamento globale e che i loro manager avrebbero dovuto “essere processati per gravi reati contro l’umanità e la natura”. Ha deinito i treni merci che trasportano il carbone “treni della morte” e, quando ha ricevuto una lettera di protesta dal presidente dell’associazione dei minatori, gli ha risposto che se quel paragone lo metteva a disagio non poteva farci niente. Hansen sostiene che il suo obiettivo non è lanciare provocazioni ma invitare alla prudenza: vuole che il mondo resti com’è oggi. “La scienza parla chiaro”, ha detto ai dimostranti che bloccavano l’entrata della centrale di Washington. “È l’unica possibilità che abbiamo”. La scienza delle previsioni Quinto di sette figli, James Hansen è cresciuto a Denison, una cittadina sonnolenta al confine occidentale dello stato dell’Iowa. Suo padre era un contadino che, dopo la seconda guerra mondiale, aveva deciso di fare il barista. James e i suoi fratelli dormivano tutti in due stanze. Appena fu grande abbastanza, Hansen andò a lavorare: consegnava a domicilio il World-Herald di Omaha. A 18 anni ricevette una borsa di studio per l’università dell’Iowa. Visto che non riusciva a pagare l’afitto di un appartamento, trovò una stanza da 25 dollari al mese. In quel periodo mangiava solo cereali. Alla fine rimase all’università e prese il dottorato in isica con una tesi sull’atmosfera di Venere. Da lì andò direttamente a New York, al Goddard institute for space studies (Giss), dove cominciò a studiare le nubi di Venere. Era preso soprattutto dalla sua ricerca e non aveva molti altri interessi. Gli ufici del Giss sono a pochi isolati dalla Columbia university, ma quando nel campus scoppiarono le proteste studentesche del 1968, Hansen quasi non se ne accorse. All’epoca il Giss aveva il computer più veloce del mondo, ma era pur sempre una macchina che funzionava con le schede perforate. “Restavo qui ino a tardi tutte le sere a controllare le mie schede”, ricorda Hansen. Nel 1969 lasciò il Giss per andare a studiare sei mesi nei Paesi Bassi. Lì conobbe sua moglie Anniek, olandese. Andarono in viaggio di nozze in Florida, vicino a Cape Canaveral, per poter vedere un lancio dell’Apollo. Nel 1973 fu annunciata la prima missione Pioneer su Venere e Hansen cominciò a progettare uno strumento, un polarimetro, da portare in orbita. Ma presto le sue ricerche si spostarono sul pianeta Terra. Tre chimici, che poi avrebbero vinto un premio Nobel, avevano scoperto che i cloroluorocarburi e altre sostanze chimiche prodotte dall’uomo potevano perforare lo strato dell’ozono. E ormai era chiaro che i gas serra si stavano rapidamente accumulando nell’atmosfera. “Ci eravamo accorti che il pianeta stava cambiando sotto i nostri occhi”, racconta Hansen. Il fenomeno lo interessava per lo stesso motivo che lo aveva spinto a studiare le nubi di Venere: bisognava cercare risposte nuove. Così decise di modificare un programma informatico che era stato creato per le previsioni meteorologiche e provò a usarlo per fare delle proiezioni. Cosa sarebbe successo alla Terra se, per esempio, i livelli di gas serra fossero raddoppiati? “Hansen non ha mai lavorato con l’idea che le sue ricerche potessero essere utili al mondo”, racconta Anniek. “Gli interessava solo la spiegazione scientiica”. Quando Hansen cominciò a creare modelli, c’erano buoni motivi teorici per pensare che un aumento dei livelli di CO2 avrebbe provocato un riscaldamento del pianeta, ma non esisteva ancora nessuna prova empirica. Negli anni trenta e quaranta la temperatura media del pianeta era aumentata, ma nei due decenni successivi in alcune regioni era diminuita di nuovo. Dopo qualche anno di studi Hansen arrivò alla conclusione che stava per emergere un nuovo schema climatico. Nel 1981 diventò direttore del Giss. In un articolo pubblicato quell’anno sulla rivista Science prevedeva che il decennio successivo sarebbe stato straordinariamente caldo, e in effetti lo fu. E che gli anni novanta sarebbero stati ancora più caldi: anche questa previsione si è avverata. Infine, diceva che entro la fine del ventesimo secolo dal “rumore” della normale variabilità del clima sarebbero emersi i primi segnali di riscaldamento globale. E anche questo è successo davvero. In seguito le previsioni di Hansen sarebbero diventate ancora più speciiche. Nel 1990 fece una scommessa con un gruppo di scienziati che quell’anno, o uno dei due successivi, sarebbe stato il più caldo della storia. Dopo nove mesi vinse la scommessa. Nel 1991 affermò che, a causa dell’eruzione del vulcano Pinatubo, nelle Filippine, la temperatura media del pianeta sarebbe scesa e poi, qualche anno dopo, avrebbe ricominciato a salire. Ed è andata proprio così. L’importanza delle intuizioni di Hansen è stata riconosciuta dalla comunità scientiica in dall’inizio. “Il lavoro che ha fatto negli anni settanta e ottanta è stato assolutamente innovativo”, dice Spencer Weart, uno storico della isica che ha studiato tutti i tentativi fatti finora per comprendere il cambiamento climatico. “Hansen aveva assolutamente ragione”, aggiunge. “Nel mio cassetto ho un fascicolo di ‘articoli autorevoli’”, dice il climatologo di Princeton Michael Oppenheimer. “E la metà sono di James”. Il lavoro di Hansen ha attirato l’attenzione di tutto il mondo. Il suo articolo del 1981 ispirò il primo articolo di prima pagina sul cambiamento climatico, che uscì sul New York Times con il titolo: “La tendenza del pianeta a riscaldarsi potrebbe far salire il livello dei mari”. Negli anni successivi Hansen fu invitato regolarmente a testimoniare davanti al congresso. Ma non pensava mai di poter svolgere un ruolo diverso da quello del ricercatore perché, spiega, non è “un buon comunicatore” e non ha tatto. “È molto timido”, dice il presidente dell’Accademia nazionale delle scienze Ralph Cicerone, che lo conosce da quasi quarant’anni. “E ho l’impressione che non ami molto il suo ruolo pubblico”. La pazienza ha un limite Per tutti gli anni ottanta e novanta, le prove del cambiamento climatico e dei suoi potenziali rischi hanno continuato ad accumularsi. Hansen si aspettava che da un momento all’altro i governi reagissero. Dopotutto, per l’ozono l’avevano fatto. Le prime prove del fatto che i clorofluorocarburi stavano distruggendo lo strato di ozono erano arrivate nel 1985: alcuni scienziati inglesi avevano scoperto che si era creato un “buco” sopra l’Antartide. Il problema era stato risolto, o almeno si era evitato che peggiorasse, con un trattato internazionale ratiicato nel 1987 che prevedeva la graduale eliminazione dei cloroluorocarburi. “All’inizio James non era un attivista”, racconta il saggista Bill McKibben, che segue la carriera di Hansen da più di vent’anni ed è stato uno degli organizzatori della manifestazione di Washington contro il carbone. “Probabilmente si era illuso, come me, che di fronte a una realtà così sconvolgente per l’umanità i poliper tici si sarebbero dati da fare. Naturalmente siamo stati entrambi molto ingenui”. Durante l’amministrazione di George W. Bush, Hansen credeva ancora che bastasse mettere a conoscenza dei fatti le persone giuste. Nel 2001 fu invitato a parlare con il vicepresidente Dick Cheney e altri funzionari dell’amministrazione, e per l’occasione preparò una presentazione intitolata “Le conseguenze negative del riscaldamento globale”. Nel 2003 fu invitato di nuovo alla Casa Bianca per incontrare il presidente del consiglio per la qualità dell’ambiente. Quella volta la sua presentazione riguardava la sensibilità del clima ai cambiamenti di concentrazione dei gas serra, che Hansen aveva studiato basandosi sui risultati dei carotaggi del ghiaccio. Nel 2004 l’amministrazione aveva ormai smesso di ingere di essere interessata al cambiamento climatico. Quell’anno la Nasa, su sollecitazione della Casa Bianca, chiese che i contatti tra gli scienziati del Giss e il mondo esterno fossero iltrati da uomini del governo nominati dall’agenzia. L’anno successivo l’amministrazione vietò al Giss di pubblicare sul suo sito i dati mensili sulle temperature, con la scusa che l’istituto non aveva rispettato i protocolli (i dati dimostravano che il 2005 sarebbe probabilmente stato l’anno più caldo della storia). Vietarono a Hansen di farsi intervistare alla National Public Radio. Quando lui rese pubblica la vicenda, anche gli scienziati di altre agenzie federali denunciarono trattamenti simili e inventarono una nuova espressione: to be hansenized, essere hansenizzati. “Quando Jim decide una cosa, la porta ino in fondo”, spiega Michael Oppenheimer. “E a un certo punto ha deciso che tutte le sue ricerche non sarebbero servite a nulla se non si fosse impegnato anche in politica”. A partire dal 2007 Hansen ha cominciato a scrivere ai capi di stato e di governo di tutto il mondo, dal premier britannico Gordon Brown al primo ministro giapponese Yasuo Fukuda. A dicembre del 2008 ha rivolto un appello a Barack e Michelle Obama: “Ormai la scienza ha chiaramente dimostrato che per salvare la natura e l’umanità dobbiamo ridurre il livello di gas serra”, ha scritto. “È ancora possibile evitare una catastrofe, ma solo se le scelte politiche saranno coerenti con le indicazioni della scienza”. Ha consegnato la lettera al consulente scientiico di Obama, John Holdren, con cui è in rapporti di amicizia, e Holdren gli ha promesso di darla al presidente. Ma non ne ha saputo più nulla, e a primavera ha cominciato a perdere iducia nella nuova amministrazione. Ritorno al futuro Ci sono molti modi per allontanare l’opinione pubblica quando si parla di riscaldamento globale. Hansen dovrebbe saperlo. Eppure insiste nel tentare di coinvolgere la gente. Tiene spesso conferenze. In pochi mesi ha parlato con i nativi americani a Washington, gli studenti universitari di Dartmouth, gli studenti delle superiori di Copenaghen, vari cittadini preoccupati (tra cui il re Harald di Norvegia, a Oslo), i fanatici delle energie rinnovabili a Milwaukee, i patiti della musica folk a Beacon, nello stato di New York, e vari gruppi di professionisti della sanità a Manhattan. Ad aprile del 2008 ci siamo incontrati a Concord, nel New Hampshire, dove era stato invitato da un gruppo di attivisti che vogliono vietare l’uso del carbone. Anche se avevano avuto solo un paio di giorni per pubblicizzare l’evento, c’erano più di 250 persone. Ho chiesto a una donna di Ossipee perché era lì. “Capita una volta sola nella vita di poter sentire le cattive notizie direttamente da chi le ha scoperte”, mi ha risposto. Come al solito Hansen aveva preparato una presentazione in PowerPoint, che è stata proietta ta su uno schermo accanto a un ritratto sbiadito di George Washington. Nella prima diapositiva c’era il titolo della conferenza: “La minaccia del clima per il pianeta”. E una postilla: “Ogni affermazione politicamente rilevante è strettamente personale”. Hansen comincia sempre i suoi interventi con una presentazione molto concentrata, ma comunque estremamente lunga, della storia del clima a partire dall’eocene, cioè da circa 50 milioni di anni fa. A quel tempo i livelli di anidride carbonica erano alti e il pianeta era molto caldo: non c’era praticamente ghiaccio e nella zona artica crescevano le palme. Poi i livelli di CO2 cominciarono a scennell’emisfero dere. Nessuno sa esattamente perché, ma tra le cause potrebbero esserci stati i processi atmosferici che, nel corso dei millenni, avevano consentito all’anidride carbonica di formare le rocce calcaree. Man mano che i livelli di CO2 scendevano, il pianeta diventava più freddo. Hansen ha proiettato sullo schermo alcune diapositive che mostravano come, tra i 50 e i 35 milioni di anni fa, le temperature degli oceani diminuirono di più di 10 gradi. Alla fine, circa 34 milioni di anni fa, le temperature scesero a tal punto che in Antartide cominciarono a formarsi i ghiacciai. Intorno a tre milioni di anni fa, forse anche prima, i ghiacci perenni avevano cominciato a formarsi anche scennell’emisfero occidentale. Poi, circa due milioni di anni fa, il mondo entrò in una fase di glaciazioni ricorrenti. Durante le ere glaciali (la più recente è inita circa dodicimila anni fa) i livelli di CO2 scesero ancora di più. Quello che sta succedendo adesso, ha spiegato Hansen al suo pubblico del New Hampshire, è che la storia del clima sta tornando indietro, come una cassetta riavvolta velocemente. L’anidride carbonica viene pompata nell’aria a una velocità diecimila volta maggiore di quella che hanno i processi atmosferici in grado di eliminarla. “Perciò adesso la composizione dell’atmosfera è di competenza degli esseri umani”, ha detto Hansen. Poi si è corretto. “O almeno, dipende da loro anche se non è di loro competenza”. Uno dei rischi di questo ritorno indietro è che i ghiacci perenni che si sono formati nel corso dei millenni cominceranno a sciogliersi. Una volta iniziato, probabilmente questo processo si autoalimenterà. “Se bruceremo tutti i combustibili fossili immettendo l’anidride carbonica nell’atmosfera, faremo sciogliere il ghiaccio del pianeta”, ha detto Hansen. “Ci vorrà un po’ di tempo per arrivarci, i ghiacci perenni non si sciolgono da un momento all’altro, ma è quello che succederà. E se il ghiaccio si scioglierà, il livello dei mari salirà di 80 metri. Quindi avremo un pianeta diverso”. Non sappiamo esattamente quale livello dovrebbe raggiungere l’anidride carbonica nell’atmosfera per provocare una catastrofe. Il massimo che gli scienziati e i politici sono riusciti a dirci è che ci saranno “interferenze antropogeniche dannose” (Dai). Nei dibattiti tra studiosi di solito si premette che queste interferenze non si veriicheranno ino a quando la concentrazione di CO2 non raggiungerà le 450 parti per milione. Ma Hansen è convinto che la soglia sia molto più bassa. “Ormai sappiamo che la concentrazione di CO2 è già pericolosa quando raggiunge le 350 parti per milione”, ha spiegato agli attivisti di Concord. Il guaio è che siamo già arrivati a 385. Secondo Hansen, una volta veriicato che i livelli di CO2 sono già troppo alti, quello che bisogna fare è evidente. Per spiegarlo ha tirato fuori un graico a barre delle riserve di combustibili fossili conosciute rappresentate in base al loro contenuto di carbonio. La barra del petrolio è piccola, quella del gas naturale ancora più piccola, mentre quella del carbone è alta. “Abbiamo già usato circa metà del petrolio”, ha osservato. “E finiremo per usare tutto il petrolio e il gas naturale facilmente estraibili. Sono di proprietà della Russia e dell’Arabia Saudita, e non possiamo chiedere a quei pae si di non venderli. Perciò, se guardiamo le dimensioni delle riserve di petrolio e gas, la situazione è chiarissima. L’unico modo per limitare la quantità di anidride carbonica che inisce nell’atmosfera è ridurre l’uso del carbone, lasciandolo dov’è o bruciandolo solo in centrali che catturano veramente l’anidride carbonica”. Si è molto parlato di queste cosiddette “centrali pulite”, ma attualmente non ce n’è nessuna in attività e, per una combinazione di ragioni sia tecniche sia economiche, non sappiamo se ce ne saranno mai. “Se si decidesse una moratoria sulle nuove centrali a carbone”, ha proseguito Hansen, “e quelle in funzione venissero gradualmente dismesse nei prossimi vent’anni, nel giro di qualche decennio potremmo tornare a 350 parti per milione”. Il rimboschimento, per esempio, se realizzato in modo consistente, potrebbe cominciare ad abbassare i livelli di CO2, dice Hansen. “Perciò è tecnicamente possibile farlo”. Ma “bisogna agire subito”. Proprio quel pomeriggio il parlamento del New Hampshire doveva votare una proposta riguardante la più grande centrale a carbone dello stato, la Merrimack Station, nella città di Bow. Il proprietario dell’impianto aveva in progetto di spendere diverse centinaia di milioni di dollari per ridurre le emissioni di mercurio della centrale, scaricandone il costo sui contribuenti. Hansen aveva deinito quel piano “un terribile spreco di denaro” sostenendo che l’impianto doveva essere chiuso. Un legislatore che condivideva la sua opinione aveva proposto di rimandare la votazione per studiare ulteriormente il progetto ma, come hanno spiegato a Hansen diverse persone che sono venute a parlare con lui dopo la conferenza, l’associazione dei costruttori dello stato era contrario e probabilmente la richiesta non sarebbe stata accolta. “Immagino che lei sia abituato a dire la verità ai politici e a essere ignorato”, ha detto un uomo a Hansen. “Proprio così”, ha risposto Hansen con un sorriso mesto. L’incubo del carbone Nei circoli scientiici la preoccupazione per le “interferenze antropogeniche dannose” è molto diffusa. Negli ultimi anni i ricercatori di tutto il mondo hanno osservato una tendenza inquietante: il pianeta sta cambiando più rapidamente di quanto avessero previsto. Nessuno si aspettava che i ghiacci dell’Antartide si sciogliessero in modo così evidente prima di un secolo, ma alcuni studi hanno dimostrato che l’enorme strato di ghiaccio del continente si sta già riducendo. All’altra estremità del globo, la calotta artica si sta sciogliendo a ritmi preoccupanti. Ormai, in estate, l’estensione dei ghiacci si è quasi dimezzata rispetto a quarant’anni fa. Nel frattempo gli scienziati hanno scoperto che le zone aride a nord e a sud dei tropici si stanno allargando più rapidamente di quanto facessero prevedere i modelli informatici. Questa espansione delle fasce subtropicali signiica che in alcune aree intensamente popolate, come il sudovest americano e il bacino del Mediterraneo, probabilmente ci saranno siccità sempre più frequenti. “Penso che la riduzione della calotta artica abbia spaventato molti scienziati”, dice il isico Spencer Weart. “E tutte queste cose si accumulano. Ti viene da pensare: ‘Ma come, ancora? Un’altra?’. Signiica che stiamo andando nella direzione sbagliata, che stiamo accelerando e aggravando il cambiamento”. “In quasi tutte le zone la situazione sta cambiando più rapidamente di quanto ci aspettassimo”, ha detto recentemente Hans Joachim, direttore dell’Istituto di ricerca sull’impatto climatico di Potsdam, in Germania. “Stiamo destabilizzando il clima del pianeta più di quanto pensino la maggior parte delle persone e i governi”. Il consulente scientiico di Obama, John Holdren, un isico preso in prestito da Harvard, dice che “un esame ragionevolmente approfondito e aggiornato delle prove che abbiamo ci fa chiaramente capire che la civiltà ha già prodotto interferenze antropogeniche dannose sul clima”. Gli scienziati concordano quasi tutti nel dire che il carbone rappresenta la minaccia più grave. Attualmente il carbone garantisce metà dell’elettricità degli Stati Uniti. In Cina si avvicina all’80 per cento, e quasi ogni settimana entra in funzione una nuova centrale a carbone. Quando le riserve di petrolio si esauriranno, ci sarà ancora una gran quantità di carbone che potrebbe essere convertito, come già si sta facendo in alcuni paesi, in carburante liquido altamente inquinante. “Sotto terra c’è abbastanza carbone per cucinarci tutti. Il carbone è il mio incubo peggiore”, ha detto il premio Nobel per la fisica Steven Chu in un discorso pronunciato poco prima di diventare ministro dell’energia dell’amministrazione Obama. Un paio di mesi fa, sette eminenti climatologi australiani hanno scritto una lettera aperta ai proprietari delle principali aziende di servizi del paese invitandoli a non costruire “nuove centrali a carbone, a meno che non siano a emissioni zero”. Si sono anche raccomandati di “avviare urgentemente un programma” per la graduale dismissione delle vecchie centrali. “La triste realtà è che per fare qualcosa di veramente utile bisognerebbe chiudere al più presto le centrali elettriche a carbone già esistenti”, hanno scritto. Anche se le sue preoccupazioni sono condivise da molte persone, Hansen resta un outsider. “Quasi tutta la comunità scientiica è pronta a dire che, se non facciamo subito qualcosa per invertire la tendenza attuale, saremo molto presto in pericolo (e forse lo siamo già)”, dice Naomi Oreskes, una storica della scienza preside di facoltà all’università di San Diego, in California. “Ma Hansen usa termini più forti. Ne sta facendo una questione morale, e questo mette sempre a disagio gli scienziati”. Hansen è ormai isolato anche dalle organizzazioni per la difesa del clima. “Per me Jim Hansen è uno scienziato eroico”, dice Eileen Claussen, presidente del Pew center on global climate change. “È stato in prima linea in dall’inizio, ha subìto ogni genere di pressioni politiche ed è stato bravissimo a non perdere di vista l’obiettivo. Ma vorrei che si limitasse a dire quello che sa veramente. Perché non credo che abbia una visione realistica di quello che è politicamente realizzabile, o di quali sarebbero le politiche migliori per affrontare questo problema”. A Washington l’unico provvedimento considerato realistico è il sistema del cosiddetto cap and trade: il governo potrebbe stabilire un limite massimo di emissioni di CO2 e poi autorizzare chi ne produce di più, come le centrali elettriche e le raffinerie di petrolio, a comprarne altre quote sul mercato del carbonio. Almeno in teoria, questo sistema scoraggerebbe l’uso di combustibili fossili facendo pagare le emissioni in più. Ma finora è stato sperimentato solo dall’Unione europea e i risultati non sono molto soddisfacenti. Hansen lo considera una presa in giro. Secondo lui ci vorrebbe una tassa diretta sulle emissioni di carbonio. All’inizio sarebbe minima e poi diventerebbe sempre più alta. Le entrate iscali ottenute così dovrebbero essere ridistribuite tra gli americani in base a un criterio di consumo pro capite, così le famiglie che usano poca energia ci guadagnerebbero, mentre quelle che ne usano molta la pagherebbero sempre di più. “L’unico modo per difendere quest’assurdità”, ha scritto Hansen a proposito del cap and trade, “è dire: ‘D’accordo, è inutile, ma ormai il treno è partito’. Se il treno è partito, sarà meglio che deragli al più presto, altrimenti il pianeta, e tutti noi, saremo nei guai ino al collo”. La sede del Giss, tra la 112a strada e la Broadway, è sopra il ristorante Da Tom, reso famoso dalla sitcom Seinfeld e da Suzanne Vega. Hansen occupa lo stesso uficio al settimo piano da quasi trent’anni, cioè da quando è diventato direttore dell’istituto. Il mese scorso sono andata a trovarlo e mi ha detto che stava cercando di digitalizzare il suo archivio. La cosa che più colpisce nel suo grande uficio, occupato in buona parte da tre tavoli di legno, è che tutte le superici disponibili sono coperte da cumuli di carte. Durante la settimana Hansen vive in un appartamento a pochi isolati dall’uficio, ma nei weekend lui e Anniek vanno spesso nella casa settecentesca che hanno nella contea di Bucks, in Pennsylvania. I figli, che a loro volta hanno dei bambini, vanno a trovarli lì. Hansen adora i suoi nipotini e sostiene che sono il motivo principale del suo attivismo. Durante tutte le nostre conversazioni, l’unica volta che l’ho visto entusiasmarsi è stato quando mi ha detto che a primavera pianterà degli alberi con loro. “Non voglio che i miei nipoti un giorno dicano: ‘Il nonno aveva capito quello che stava succedendo e non è riuscito a spiegarlo agli altri’”. Tirare avanti Il giorno in cui sono andata a trovarlo in uficio, la commissione energia e commercio della camera stava cominciando a discutere una proposta di legge sul cap and trade presentata dal presidente, il deputato della California Henry Waxman. L’American clean energy and security act ha come obiettivo la riduzione delle emissioni di carbonio del 17 per cento entro il 2020. È il più importante progetto di legge sul clima che sia stato presentato finora alla camera. Hansen mi ha fatto notare che prevedeva esplicitamente la costruzione di nuove centrali a carbone e che, se fosse stato approvato, si sarebbe dimostrato praticamente inutile. Sperava che venisse bocciato, così il congresso avrebbe potuto “rifarlo in modo più sensato”. Gli ho detto che se la proposta di legge non fosse passata, probabilmente il congresso l’avrebbe lasciata cadere, e quello era uno dei motivi per cui le organizzazioni ambientaliste la sostenevano. “È stupido da parte loro”, ha commentato Hansen. “È un vero peccato che alcune di queste organizzazioni siano entrate nella stessa mentalità del ‘tirare avanti’ di Washington”. Se è vero, come sostiene Hansen, che i politici non capiscono niente di climatologia, qualcuno potrebbe anche dire che lui non capisce niente di politica. Per stabilizzare i livelli di CO2 nell’atmosfera, le emissioni annue globali dovrebbero essere ridotte di tre quarti. Bisognerebbe modificare radicalmente le attività agricole e forestali. Almeno finora non sembra che nessun paese sia disposto ad assumere i provvedimenti necessari. Anzi, la tendenza generale è esattamente opposta. Solo perché il mondo ha un disperato bisogno di trovare una soluzione che soddisfi sia gli scienziati sia i politici, questo non significa necessariamente che la soluzione esista. Hansen obietta che mentre le leggi della geofisica non cambiano, noi possiamo modificare quelle della società. Quando gli ho detto che non mi sembra plausibile aspettarsi che gli Stati Uniti rinuncino alle loro centrali a carbone, mi ha risposto: “Ci sono paesi la cui eficienza energetica è il doppio della nostra. Otteniamo il 50 per cento dell’elettricità dal carbone. Questo argomento da solo dovrebbe bastare”. E allora la Cina e l’India? Se il clima dovesse cambiare drasticamente subirebbero entrambe gravi danni, ha detto. “Prima o poi dovranno capirlo. Anzi stanno già cominciando a rendersene conto. Non è irrealistico”, ha continuato. “Ma sono le scelte politiche a doverci spingere in quella direzione. E inché permetteremo ai politici e a quelli che li votano di continuare a stabilire le regole per ‘andare avanti come prima’, o quasi, non cambierà nulla. Ci servono nuove regole”. Ha concluso dicendo che pensava di partecipare a un’altra manifestazione: in West Virginia, nella terra del carbone. In Cina quasi ogni settimana entra in funzione una nuova centrale a carbone.

© 2009 by Elizabeth Kolbert. Published by arrangement with Agenzia Letteraria Roberto Santachiara. E. K. è una giornalista del New Yorker. In Italia ha pubblicato Cronache da una catastrofe (Nuovi Mondi Media 2006).

“Internazionale”, n. 810

~ di p@rick su settembre 2, 2009.

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